Cultura "Popolare"
Giuseppe Petronio (1909 - 2003) docente di letteratura italiana all'Università di Trieste
L'analisi della cultura «popolare» (cioè di quella propria delle classi subalterne) è un momento essenziale del pensiero di Gramsci. Al centro dei Quaderni del carcere vi è la convinzione che in quella fase di sconfitta del movimento operaio, e quindi di «guerra di posizione», fosse necessaria una battaglia culturale che costituisse un blocco storico in grado di assicurarsi l'egemonia: il momento del consenso indispensabile per arrivare a quello del dominio.
In questa prospettiva diventava centrale lo studio non solo del ruolo avuto storicamente dai gruppi intellettuali, ma, anche, della mentalità e della cultura delle classi popolari fino allora tenute lontane dal potere e dalla cultura.
Per Gramsci quella cultura (nel senso largo: concezione del mondo) è essenzialmente «folklore»: un concetto e un termine per i quali egli non prova i compiacimenti generosi ma interessati dei romantici né, tanto meno, il misto di disprezzo sostanziale e di mitizzazione estetizzante dei decadenti.
Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con burbanzosa fatuità, non era «populista», e «folklore» è per lui un concetto negativo. Esso, costituito come è in massima parte dai cascami della cultura egemone, è sempre «contraddittorio e frammentario» (Q.d.C. 1105); si avvicina al «provinciale» in quanto particolaristico e anacronistico (ivi, 1660); rappresenta «una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo» (ivi, 2271); corrisponde a ciò che in filosofia è il senso comune, cioè «una convinzione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle masse di cui esso è la filosofia» (ivi, 1396). Pertanto non è né può essere «nazionale», se nazionale è solo una cultura contemporanea e a livello mondiale o almeno europeo (ivi, 1660). E compito della filosofia della prassi, in quanto «espressione» delle «classi subalterne» (ivi, 1320), è precisamente «educare le masse», liberandole dalla loro cultura arretrata (ivi, 1858) e portando le a una visione del mondo moderna e universale.
Due tesi dunque solo in apparenza contrastanti; svalutazione della cultura popolare per la sua arretratezza, ma pure riconoscimento della sua serietà (ivi, 2314) e della necessità di studiarla se si voglia compiere «un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società». E perciò Gramsci, pure con gli strumenti limitati a sua disposizione, pone le premesse per uno studio della cultura popolare, nuovo nel metodo, nella scelta e analisi del materiale, nelle conclusioni. Elabora criteri metodologici che tengano conto dei caratteri peculiari delle classi subalterne e delle loro strutture sociali e mentali (ivi, 2268 sg; 2283 sg.), e ne distinguano le esigenze rispetto a quelle delle classi colte ed egemoni: ciò che è un ferrovecchio in città - scrive icasticamente - può essere un utensile in provincia. E intraprende un'analisi, del tutto nuova nella nostra cultura, della letteratura popolare, studiandone sia i generi (il melodramma, il romanzo d'appendice, poliziesco, nero), sia gli strumenti di produzione e diffusione (l'editoria popolare), sia particolari autori (Guerrazzi, Mastriani, la Invernizio ecc.), sia alcune opere e la loro circolazione.
I limiti di queste ricerche sono, com'è naturale, tanto nella loro stessa novità e nella mancanza perciò di modelli, quanto nelle condizioni nelle quali Gramsci lavorava. E perciò se molte delle sue analisi sono ancora oggi di pungente attualità, altre paiono imprecise, carenti di dimostrazione, non persuasive. Ma restano la novità geniale delle tesi di fondo, l'assunto della necessità di un sistema letterario organico nel quale tutti i livelli trovino posto e siano visti nelle loro reciproche implicazioni, l'avvio a un tipo di ricerche e di studi che ha dato già tanti frutti e che è ancora in pieno svolgimento.
L'analisi della cultura «popolare» (cioè di quella propria delle classi subalterne) è un momento essenziale del pensiero di Gramsci. Al centro dei Quaderni del carcere vi è la convinzione che in quella fase di sconfitta del movimento operaio, e quindi di «guerra di posizione», fosse necessaria una battaglia culturale che costituisse un blocco storico in grado di assicurarsi l'egemonia: il momento del consenso indispensabile per arrivare a quello del dominio.
In questa prospettiva diventava centrale lo studio non solo del ruolo avuto storicamente dai gruppi intellettuali, ma, anche, della mentalità e della cultura delle classi popolari fino allora tenute lontane dal potere e dalla cultura.
Per Gramsci quella cultura (nel senso largo: concezione del mondo) è essenzialmente «folklore»: un concetto e un termine per i quali egli non prova i compiacimenti generosi ma interessati dei romantici né, tanto meno, il misto di disprezzo sostanziale e di mitizzazione estetizzante dei decadenti.
Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con burbanzosa fatuità, non era «populista», e «folklore» è per lui un concetto negativo. Esso, costituito come è in massima parte dai cascami della cultura egemone, è sempre «contraddittorio e frammentario» (Q.d.C. 1105); si avvicina al «provinciale» in quanto particolaristico e anacronistico (ivi, 1660); rappresenta «una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo» (ivi, 2271); corrisponde a ciò che in filosofia è il senso comune, cioè «una convinzione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle masse di cui esso è la filosofia» (ivi, 1396). Pertanto non è né può essere «nazionale», se nazionale è solo una cultura contemporanea e a livello mondiale o almeno europeo (ivi, 1660). E compito della filosofia della prassi, in quanto «espressione» delle «classi subalterne» (ivi, 1320), è precisamente «educare le masse», liberandole dalla loro cultura arretrata (ivi, 1858) e portando le a una visione del mondo moderna e universale.
Due tesi dunque solo in apparenza contrastanti; svalutazione della cultura popolare per la sua arretratezza, ma pure riconoscimento della sua serietà (ivi, 2314) e della necessità di studiarla se si voglia compiere «un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società». E perciò Gramsci, pure con gli strumenti limitati a sua disposizione, pone le premesse per uno studio della cultura popolare, nuovo nel metodo, nella scelta e analisi del materiale, nelle conclusioni. Elabora criteri metodologici che tengano conto dei caratteri peculiari delle classi subalterne e delle loro strutture sociali e mentali (ivi, 2268 sg; 2283 sg.), e ne distinguano le esigenze rispetto a quelle delle classi colte ed egemoni: ciò che è un ferrovecchio in città - scrive icasticamente - può essere un utensile in provincia. E intraprende un'analisi, del tutto nuova nella nostra cultura, della letteratura popolare, studiandone sia i generi (il melodramma, il romanzo d'appendice, poliziesco, nero), sia gli strumenti di produzione e diffusione (l'editoria popolare), sia particolari autori (Guerrazzi, Mastriani, la Invernizio ecc.), sia alcune opere e la loro circolazione.
I limiti di queste ricerche sono, com'è naturale, tanto nella loro stessa novità e nella mancanza perciò di modelli, quanto nelle condizioni nelle quali Gramsci lavorava. E perciò se molte delle sue analisi sono ancora oggi di pungente attualità, altre paiono imprecise, carenti di dimostrazione, non persuasive. Ma restano la novità geniale delle tesi di fondo, l'assunto della necessità di un sistema letterario organico nel quale tutti i livelli trovino posto e siano visti nelle loro reciproche implicazioni, l'avvio a un tipo di ricerche e di studi che ha dato già tanti frutti e che è ancora in pieno svolgimento.