Consenso
Umberto Cerroni, docente di scienza della politica all'Università di Roma «La Sapienza»
Per intendere la portata e il limite del pensiero di Gramsci attorno ai problemi del consenso e della democrazia politica occorre innanzi tutto considerare la tradizione storica entro la quale si muove Gramsci. Egli ha di fronte un'Italia nella quale un suffragio allargato è introdotto soltanto dal 1919 e ha già avuto la terribile risposta del fascismo. Per altro verso egli riflette sull'esperienza della rottura rivoluzionaria dell'Ottobre che è stata bloccata dallo stalinismo principalmente per mancanza di tradizioni e istituzioni democratiche.
Fra le due guerre mondiali la democrazia è in declino in tutto il continente europeo e sul piano teorico subisce contestazioni di varia natura: Weber è morto sognando una democrazia plebiscitaria che leghi carismaticamente i capi alle masse, Lukacs e Schmitt - suoi allievi - chiedono regimi «nuovi» ispirati al mito della classe operaia e del suo partito oppure al mito della efficienza di un leader dittatore. Anche nella sinistra è profondamente penetrata la cultura di un attivismo «rivoluzionario» sostanzialmente nichilista e protestatario, cui fa riscontro la tendenza all'accettazione del «male minore». Da una parte si pensa che la macchina dello Stato è soltanto forza, cui va opposta la violenza «rivoluzionaria»; dall'altra si sottintende che non c'è sostanzialmente niente altro da fare che lasciarsi trainare dalle «forze dirigenti».
In questo quadro assume un forte significato rinnovatore l'idea gramsciana della egemonia. Secondo Gramsci la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi: come dominio (coazione) e come «direzione intellettuale e morale»
(consenso). Lo Stato non è dunque mai pura forza, né la trasformazione può esser pura violenza. Quindi un gruppo dominante non è per ciò stesso dirigente e un gruppo dominato non è votato alla subalternità.
La possibilità di dissaldare la forza dal consenso si affida all'elemento creativo e mobile di una politica capace di scavalcare gli interessi ristretti (corporativi) di una classe per realizzare una più vasta aggregazione di consensi attorno a un nucleo di interessi più generali, radicati nella comunità nazionale. Questa possibilità è legata tanto alla capacità di cogliere gli interessi durevoli della classe lavoratrice e la loro convergenza con gli interessi della società nazionale, quanto alla dignità culturale di una politica che si sente responsabile della guida di un popolo e di una nazione. La capacità chiama in causa l'analisi delle tendenze fondamentali che sospingono i processi sociali in corso, mentre la dignità culturale sospinge la politica a farsi erede e continuatrice della storia nazionale: «politica-storia». Da qui la confluenza in Gramsci di un antidogmatico spirito di ricerca delle prospettive con una approfondita indagine sulla storia della nazione e della sua cultura.
Su questa linea Gramsci reagisce sia contro l'elitismo di chi teorizza l'inevitabile e permanente scissione fra rappresentanti e rappresentati, sia contro la denigrazione della democrazia rappresentativa come regime dominato dal «numero». In realtà, ragiona Gramsci, una coerente democrazia politica «tende a far coincidere governanti e governati)) e ha quindi per modello un autogoverno generale, la crescita culturale di tutti. D'altra parte «la numerazione dei voti è la manifestazione terminale di un lungo processo», nel quale vengono collaudate le proposte e le capacità della élite di risolvere i problemi generali. Non si tratta affatto di sostituire alla élite eletta una «élite per decreto». Si tratta invece di immettere nell'élite eletta una cultura fatta di responsabilità nazionale e umana nei confronti del proprio popolo e degli elettori-persone. Così si allargherà il consenso attorno a chi sarà in grado di proporre soluzioni più ragionevoli e più umane.
Mentre sull'Europa e sul mondo si addensavano le nubi della seconda guerra mondiale, nel carcere di Turi Gramsci non si accodava alle scetticheggianti critiche portate alla democrazia rappresentativa e cercava invece di orientarla a modelli più atti a radicarla nelle grandi masse emergenti. Egli concorreva così a determinare la rinascita democratica della lotta antifascista, che sarebbe in certo modo culminata - in Italia - con la conquista del suffragio universale e della Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Per intendere la portata e il limite del pensiero di Gramsci attorno ai problemi del consenso e della democrazia politica occorre innanzi tutto considerare la tradizione storica entro la quale si muove Gramsci. Egli ha di fronte un'Italia nella quale un suffragio allargato è introdotto soltanto dal 1919 e ha già avuto la terribile risposta del fascismo. Per altro verso egli riflette sull'esperienza della rottura rivoluzionaria dell'Ottobre che è stata bloccata dallo stalinismo principalmente per mancanza di tradizioni e istituzioni democratiche.
Fra le due guerre mondiali la democrazia è in declino in tutto il continente europeo e sul piano teorico subisce contestazioni di varia natura: Weber è morto sognando una democrazia plebiscitaria che leghi carismaticamente i capi alle masse, Lukacs e Schmitt - suoi allievi - chiedono regimi «nuovi» ispirati al mito della classe operaia e del suo partito oppure al mito della efficienza di un leader dittatore. Anche nella sinistra è profondamente penetrata la cultura di un attivismo «rivoluzionario» sostanzialmente nichilista e protestatario, cui fa riscontro la tendenza all'accettazione del «male minore». Da una parte si pensa che la macchina dello Stato è soltanto forza, cui va opposta la violenza «rivoluzionaria»; dall'altra si sottintende che non c'è sostanzialmente niente altro da fare che lasciarsi trainare dalle «forze dirigenti».
In questo quadro assume un forte significato rinnovatore l'idea gramsciana della egemonia. Secondo Gramsci la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi: come dominio (coazione) e come «direzione intellettuale e morale»
(consenso). Lo Stato non è dunque mai pura forza, né la trasformazione può esser pura violenza. Quindi un gruppo dominante non è per ciò stesso dirigente e un gruppo dominato non è votato alla subalternità.
La possibilità di dissaldare la forza dal consenso si affida all'elemento creativo e mobile di una politica capace di scavalcare gli interessi ristretti (corporativi) di una classe per realizzare una più vasta aggregazione di consensi attorno a un nucleo di interessi più generali, radicati nella comunità nazionale. Questa possibilità è legata tanto alla capacità di cogliere gli interessi durevoli della classe lavoratrice e la loro convergenza con gli interessi della società nazionale, quanto alla dignità culturale di una politica che si sente responsabile della guida di un popolo e di una nazione. La capacità chiama in causa l'analisi delle tendenze fondamentali che sospingono i processi sociali in corso, mentre la dignità culturale sospinge la politica a farsi erede e continuatrice della storia nazionale: «politica-storia». Da qui la confluenza in Gramsci di un antidogmatico spirito di ricerca delle prospettive con una approfondita indagine sulla storia della nazione e della sua cultura.
Su questa linea Gramsci reagisce sia contro l'elitismo di chi teorizza l'inevitabile e permanente scissione fra rappresentanti e rappresentati, sia contro la denigrazione della democrazia rappresentativa come regime dominato dal «numero». In realtà, ragiona Gramsci, una coerente democrazia politica «tende a far coincidere governanti e governati)) e ha quindi per modello un autogoverno generale, la crescita culturale di tutti. D'altra parte «la numerazione dei voti è la manifestazione terminale di un lungo processo», nel quale vengono collaudate le proposte e le capacità della élite di risolvere i problemi generali. Non si tratta affatto di sostituire alla élite eletta una «élite per decreto». Si tratta invece di immettere nell'élite eletta una cultura fatta di responsabilità nazionale e umana nei confronti del proprio popolo e degli elettori-persone. Così si allargherà il consenso attorno a chi sarà in grado di proporre soluzioni più ragionevoli e più umane.
Mentre sull'Europa e sul mondo si addensavano le nubi della seconda guerra mondiale, nel carcere di Turi Gramsci non si accodava alle scetticheggianti critiche portate alla democrazia rappresentativa e cercava invece di orientarla a modelli più atti a radicarla nelle grandi masse emergenti. Egli concorreva così a determinare la rinascita democratica della lotta antifascista, che sarebbe in certo modo culminata - in Italia - con la conquista del suffragio universale e della Repubblica democratica fondata sul lavoro.