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Questione della lingua in italia

Tullio De Mauro, docente di filosofia del linguaggio all'Università di Roma «La Sapienza»

Per anni, biografi e critici di Gramsci, a cominciare da Piero Gobetti, si sono stupiti di un fatto: che un uomo così geniale e appassionato alla lotta politica e alla battaglia delle idee si fosse occupato tanto professionalmente di studi linguistici.
Nello stupore, espresso a volte in forme assai candide, possiamo leggere uno dei tanti esempi della persistente difficoltà che gli studi linguistici e filologici incontrano nell'acclimatarsi nel nostro paese, cui continuano a risultare più che stranieri strani, diversamente da ciò che avviene in altre terre. Ma qui vogliamo parlare di Gramsci.
A parte il lungo impegno giovanile negli studi linguistici alla scuola torinese di Matteo Bartoli, che si protrasse ben oltre l'inizio della milizia politica, fino almeno al 1918, va ricordato l'impegno più maturo di Gramsci. I Quaderni del carcere si aprono col primo, del 1929, fitto di progetti e note sulla questione della lingua e il suo senso in Italia, e si chiudono con l'ultimo, il 29, del 1935, interamente dedicato a «Note per una introduzione allo studio della grammatica». L'edizione critica dei Quaderni dataci da Valentino Gerratana nel 1975 mise sotto gli occhi di tutti, con palmare evidenza, quel che prima solo ad alcuni (Sozzi, Rosiello) era stato possibile arguire: e cioè che le meditazioni sul linguaggio e sulla assai particolare situazione linguistica nazionale italiana non erano per Gramsci un sentiero laterale, ma una strada maestra di tutta la sua riflessione.
Quattro anni dopo l'edizione critica, un libro ampio e documentato di Franco Lo Piparo è partito da questa constatazione. In Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci (Laterza 1979) Lo Piparo ha mostrato che le considerazioni sulla vicenda storico-linguistica italiana e l'elaborazione dell'idea di linguaggio come attività capace sia di cementare un comune sentire sia, in altre circostanze, di produrre insanabili fratture entro una società, sono state decisive per Gramsci.
A partire da ciò egli reinterpretò la nostra storia nazionale scientifico-intellettuale e politica, ed elaborò la teoria dell'egemonia, della costruzione di un effettivo consenso come presupposto di una reale capacità di direzione.
Qualche anno dopo, in un convegno dedicato a Gramsci e ripreso e pubblicato nella rivista catanese «Le forme e la storia», Valentino Gerratana dichiarò il suo assenso all'analisi di Lo Piparo.
E in quella stessa sede Giuseppe Giarrizzo dette una interpretazione assai suggestiva delle meditazioni gramsciane sulla realtà linguistica: esse sarebbero nate dallo sforzo di costruire una teoria della cultura e della società tale da dare ragione alla peculiare condizione italiana nel quadro delle sollecitazioni e delle scelte drammatiche della Terza Internazionale e del movimento comunista internazionale al centro delle quali il giovane Gramsci, diventato «capo della classe operaia» in Italia, venne a trovarsi bruscamente proiettato.
Nell'attivare parecchie parti della complessa riflessione gramsciana sul linguaggio (sulla mobilità e stratificazione della lingua; sulla tensione perenne tra grammatica vissuta e grammatica normativa; sulle strette relazioni tra scelte espressive e forme della cultura e della vita sociale) un peso ebbero certamente anche le esperienze di prassi linguistica che Gramsci visse. Come giornalista e come dirigente del nascente comunismo italiano, egli fu continuamente impegnato a fronteggiare le necessità di costruire un linguaggio politico e teorico nuovo, capace di articolare e pensare il nuovo mondo di idee e possibilità che si andava creando, e tuttavia tale da risultare trasparente alle masse in funzione di cui nasceva; un linguaggio esportabile su scala internazionale e tuttavia saldamente radicato nella tradizione nazionale. Egli fu costretto, insomma, a farsi di continuo traduttore e mediatore, al confine fra correnti linguistiche diverse.
Accanto agli studi linguistici e dialettologici alla scuola di Bartoli, accanto ad Ascoli, valorizzato giustamente da Lo Piparo, accanto ai pragmatisti italiani, sulla cui influenza hanno insistito Amodio ed Emilia Passaponti, fra le fonti della teoria gramsciana del linguaggio dobbiamo dunque collocare anche, come suggerisce Giarrizzo, lo stimolo che a Gramsci venne dalla viva esperienza politica, e quello della pratica concreta della parola nel contesto nazionale e internazionale.

Gramsci I QUADERNI DEL CARCERE ED ECHI IN GUTTUSO

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