Senso comune e filosofia
Cesare Luporini (1909-1993), filosofo
Quello del «senso comune» è uno dei grandi temi che Gramsci, fin dall'inizio dei Quaderni del carcere (febbraio 1929), si propose di scrutare e mettere a fuoco in tutte le sue attinenze e nella sua rilevanza politica. Non a caso esso attraversa gran parte della sua meditazione carceraria. L'odierno esteso uso del termine, almeno in Italia, nel linguaggio politico, si può dire che è stato largamente influenzato dalla diffusione postuma del pensiero di Gramsci.
L'espressione «senso comune» è di origine filosofica (come ognuno può riscontrare consultando un qualsiasi Dizionario di filosofia, o una storia della filosofia moderna).
Il confronto con la tradizione filosofica rimane una costante essenziale delle osservazioni di Gramsci in proposito, ma non allo scopo di proseguirla, bensì di trasformarla profondamente immettendo la nozione di «senso comune» nel discorso politico, appunto; cioè costituendola in categoria della scienza politica, interpretativa della realtà sociale e in pari tempo operativa.
Gramsci osserva che famosi filosofi (per esempio lmmanuel Kant o Benedetto Croce) si sforzano di far apparire le loro filosofie in accordo col cosiddetto «senso comune» (o anche «buon senso»), inteso come atteggiamento di opinione (<<opinione media») degli uomini, spontaneo e naturale. La prima mossa di Gramsci è di denaturalizzare quella nozione (che gli appare rozzamente naturalistica perfino in un idealista come Giovanni Gentile), cioè di storicizzarla radicalmente. La seconda mossa di Gramsci è di relativizzarla non solo
diacronicamente, lungo il corso storico delle società umane (quel che ieri era «senso comune» oggi non lo è più e viceversa) ma anche sincronicamente, rispetto alle diverse stratificazioni (classi e gruppi sociali) di una medesima società: nella quale può coesistere e anche confliggere una pluralità di «sensi comuni».
La formulazione più matura di ciò si trova espressa nel Quaderno 24 (1934): «Ogni strato sociale ha il suo 'senso comune' e il suo 'buon senso', che sono in fondo la concezione della vita e dell'uomo più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di 'senso comune': è questo il documento della sua effettualità storica.
Quello del «senso comune» è uno dei grandi temi che Gramsci, fin dall'inizio dei Quaderni del carcere (febbraio 1929), si propose di scrutare e mettere a fuoco in tutte le sue attinenze e nella sua rilevanza politica. Non a caso esso attraversa gran parte della sua meditazione carceraria. L'odierno esteso uso del termine, almeno in Italia, nel linguaggio politico, si può dire che è stato largamente influenzato dalla diffusione postuma del pensiero di Gramsci.
L'espressione «senso comune» è di origine filosofica (come ognuno può riscontrare consultando un qualsiasi Dizionario di filosofia, o una storia della filosofia moderna).
Il confronto con la tradizione filosofica rimane una costante essenziale delle osservazioni di Gramsci in proposito, ma non allo scopo di proseguirla, bensì di trasformarla profondamente immettendo la nozione di «senso comune» nel discorso politico, appunto; cioè costituendola in categoria della scienza politica, interpretativa della realtà sociale e in pari tempo operativa.
Gramsci osserva che famosi filosofi (per esempio lmmanuel Kant o Benedetto Croce) si sforzano di far apparire le loro filosofie in accordo col cosiddetto «senso comune» (o anche «buon senso»), inteso come atteggiamento di opinione (<<opinione media») degli uomini, spontaneo e naturale. La prima mossa di Gramsci è di denaturalizzare quella nozione (che gli appare rozzamente naturalistica perfino in un idealista come Giovanni Gentile), cioè di storicizzarla radicalmente. La seconda mossa di Gramsci è di relativizzarla non solo
diacronicamente, lungo il corso storico delle società umane (quel che ieri era «senso comune» oggi non lo è più e viceversa) ma anche sincronicamente, rispetto alle diverse stratificazioni (classi e gruppi sociali) di una medesima società: nella quale può coesistere e anche confliggere una pluralità di «sensi comuni».
La formulazione più matura di ciò si trova espressa nel Quaderno 24 (1934): «Ogni strato sociale ha il suo 'senso comune' e il suo 'buon senso', che sono in fondo la concezione della vita e dell'uomo più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di 'senso comune': è questo il documento della sua effettualità storica.
Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. Il 'senso comune' è il folclore della filosofia e sta sempre di mezzo tra il folclore vero e proprio (cioè come è comunemente inteso) e la filosofia, la scienza, l'economia degli scienziati».
In tale concezione si innesta quella che possiamo chiamare la terza mossa di Gramsci, per la quale la nozione di «senso comune» si fa operativa nella pratica.
Gramsci prende spunto da una osservazione di Marx, in un luogo del Capitale (su cui aveva già richiamato l'attenzione il Croce), ove viene affacciata l'idea che un determinato progresso scientifico (nella fattispecie: della critica dell'economia politica, in ordine alla teoria del valore) è storicamente possibile allorché «il concetto di uguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare».
Gramsci generalizza questo modo di vedere proiettandolo nella sua rappresentazione dell'azione politica e rivoluzionaria. Una nuova concezione può aver risultati incisivi se riesce. ad agire anche nella sfera del senso comune, «modificare l'opinione media di una certa società», addirittura produrre «nuovi luoghi comuni».
In rapporto a ciò è da vedere anche l'ardita problematica svolta da Gramsci intorno alla nozione di «conformismo». «Esistono molti 'conformismi', molte lotte per nuovi conformismi [...]». (Quaderno 15, 1933), nel quadro strategico complesso «del rinnovamento intellettuale e morale» (che non può essere «simultaneo in tutti gli strati sociali»). Tutte questioni da riportarsi ai grandi parametri gramsciani relativi al tema «spontaneità e direzione», all'interno del discorso sulla «egemonia»
In tale concezione si innesta quella che possiamo chiamare la terza mossa di Gramsci, per la quale la nozione di «senso comune» si fa operativa nella pratica.
Gramsci prende spunto da una osservazione di Marx, in un luogo del Capitale (su cui aveva già richiamato l'attenzione il Croce), ove viene affacciata l'idea che un determinato progresso scientifico (nella fattispecie: della critica dell'economia politica, in ordine alla teoria del valore) è storicamente possibile allorché «il concetto di uguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare».
Gramsci generalizza questo modo di vedere proiettandolo nella sua rappresentazione dell'azione politica e rivoluzionaria. Una nuova concezione può aver risultati incisivi se riesce. ad agire anche nella sfera del senso comune, «modificare l'opinione media di una certa società», addirittura produrre «nuovi luoghi comuni».
In rapporto a ciò è da vedere anche l'ardita problematica svolta da Gramsci intorno alla nozione di «conformismo». «Esistono molti 'conformismi', molte lotte per nuovi conformismi [...]». (Quaderno 15, 1933), nel quadro strategico complesso «del rinnovamento intellettuale e morale» (che non può essere «simultaneo in tutti gli strati sociali»). Tutte questioni da riportarsi ai grandi parametri gramsciani relativi al tema «spontaneità e direzione», all'interno del discorso sulla «egemonia»