La democrazia elettronica
dall’Intervista a Ferdinando Adornato, l’Unità, 1 dicembre 1983
Abbiamo toccato il tema della Sinistra. Approfondiamolo per un attimo. Molti interventi segnalano, con grande allarme per il futuro, il ritardo culturale e politico della Sinistra di fronte ai temi della rivoluzione elettronica. E’ anche un tuo giudizio?
Prima di tutto c’è da dire che in Italia i governi non hanno avuto e non hanno neanche la minima consapevolezza dell’esistenza di questi problemi. Lo dimostra lo stato della ricerca. Come partito noi abbiamo cominciato ad affrontare in diverse sedi questi problemi. Ma certo il ritardo c’è. E ciò, nonostante intellettuali e studiosi di sinistra abbiano già elaborato importanti analisi su questi argomenti. Direi che il ritardo sta soprattutto nella consapevolezza generale del partito e della gente dell’importanza di questi temi. Su questa questione l’Italia si gioca infatti la sua appartenenza all’area dei paesi industrializzati.
Non pensi che sarebbe utile se il Pci, anticipando il governo, convocasse una grande conferenza nazionale come sbocco di studi e analisi sul futuro dell’Italia elettronica?
Avevo proposto circa un anno e mezzo fa, al Congresso della Fgci, l’idea di un convegno di futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto intero l’arco delle questioni del nostro futuro…
Forse hai scelto una parola sbagliata: futurologia fa pensare più alla fantascienza che a una concreta “programmazione” del futuro…
Ho usato quel termine per segnalare che oggi non sono entrati in discussione soltanto gli assetti produttivi e le strutture del capitalismo maturo, ma siamo di fronte a una vera e propria “crisi del mondo”. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo sia per le possibilità che per i rischi. L’allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l’elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo, l’atmosfera e la toposfera della terra. Grava infine sull’umanità l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari. Ecco perché pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche. In sostanza, dunque, un convegno che guardasse al futuro con un po’ di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze. Ritengo che sia stato un errore non esserci ancora arrivati.
E perché non ci si è arrivati?
Le cause sono tante, ma io ne voglio sottolineare una. In questi ultimi anni ci siamo giustamente concentrati sul tema della lotta contro la guerra. E c’è ancora tanto da fare perché in Italia si estenda la consapevolezza, che nella RFT è più estesa che da noi, che la guerra è davvero possibile. D’altra parte, però, bisogna stare attenti che la paura della distruzione totale non diventi così ossessiva e stringente da impegnare tutte le energie e impedire di pensare ad altro. Questo sarebbe una vittoria degli strateghi del terrore. C’è infatti chi ha interesse a farci “convivere” col rischio perenne della guerra impedendoci di vedere non solo che la guerra si può sventare ma che si può, già oggi, vivere in modo diverso.
Insistiamo ancora sul tema dell’elettronica. Come deve prepararsi il partito ad affrontare questa nuova epoca?
Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, a orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani…
Si può arrivare a dire che i lavoratori intellettuali sostituiranno la classe operaia tradizionale?
È una domanda che si spinge molto avanti nel tempo. Forse avanti di alcuni decenni. Comunque già oggi i processi industriali spingono a far sostituire da questi strati notevoli settori di classe operaia. Mi pare però che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica.
Ma in un mondo nel quale le informazioni, anche le più sofisticate, possono arrivare direttamente nelle case della gente, resisterà il partito di massa? Avrà ancora un senso un partito che costruisce un proprio sistema autonomo di informazione con gli iscritti? L’elettronica non spezzerà il circuito della partecipazione?
La questione esiste ed è anche più ampia di quella che tu poni. Non riguarda solo il PCI e i partiti di massa ma riguarda il destino e le possibilità stesse dell’associazione collettiva. Io francamente credo che questa esigenza sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà ad esistere anche se in forme diverse dal passato. La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica…
Ma già si parla di “democrazia elettronica”: la gente risponde da casa ai quesiti posti sul video dall’amministrazione…
La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi per esempio, nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche. È qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.
Quindi tu non credi che anche i partiti storici come quelli della vecchia Europa possano diventare solo dei partiti-immagine…
Possono, certo che possono. Ma intanto bisogna attrezzarsi per saper essere anche partiti-immagine e partiti d’opinione. Il rischio è quello di diventare solo questo. Perché sarebbe un impoverimento non solo della vita politica, ma della vita dell’uomo in generale.
Il rischio segnalato dagli intellettuali che si occupano di queste materie è che l’immagine tende progressivamente a svuotare di significato le parole, i contenuti, la sostanza di una linea, per appiattirla al modello pubblicitario. Vince chi ha la reclame più efficace…
Dietro a questa e ad altre paure che vengono segnalate rispetto alla rivoluzione elettronica c’è spesso un tradizionale sentimento delle elite intellettuali, che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte. Del resto è stato così anche per Orwell. E non era neanche una grandissima novità perchè era stato preceduto da altri che avevano la stessa “ossessione” ed erano anche scrittori più raffinati di lui come Huxley. Io credo che, in linea generale, bisogna avere un atteggiamento critico verso questi sentimenti che, anche quando non esprimono la volontà di mantenere esclusive certe posizioni di privilegio intellettuale, finiscono per opporsi alla diffusione della cultura.
Abbiamo toccato il tema della Sinistra. Approfondiamolo per un attimo. Molti interventi segnalano, con grande allarme per il futuro, il ritardo culturale e politico della Sinistra di fronte ai temi della rivoluzione elettronica. E’ anche un tuo giudizio?
Prima di tutto c’è da dire che in Italia i governi non hanno avuto e non hanno neanche la minima consapevolezza dell’esistenza di questi problemi. Lo dimostra lo stato della ricerca. Come partito noi abbiamo cominciato ad affrontare in diverse sedi questi problemi. Ma certo il ritardo c’è. E ciò, nonostante intellettuali e studiosi di sinistra abbiano già elaborato importanti analisi su questi argomenti. Direi che il ritardo sta soprattutto nella consapevolezza generale del partito e della gente dell’importanza di questi temi. Su questa questione l’Italia si gioca infatti la sua appartenenza all’area dei paesi industrializzati.
Non pensi che sarebbe utile se il Pci, anticipando il governo, convocasse una grande conferenza nazionale come sbocco di studi e analisi sul futuro dell’Italia elettronica?
Avevo proposto circa un anno e mezzo fa, al Congresso della Fgci, l’idea di un convegno di futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto intero l’arco delle questioni del nostro futuro…
Forse hai scelto una parola sbagliata: futurologia fa pensare più alla fantascienza che a una concreta “programmazione” del futuro…
Ho usato quel termine per segnalare che oggi non sono entrati in discussione soltanto gli assetti produttivi e le strutture del capitalismo maturo, ma siamo di fronte a una vera e propria “crisi del mondo”. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo sia per le possibilità che per i rischi. L’allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l’elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo, l’atmosfera e la toposfera della terra. Grava infine sull’umanità l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari. Ecco perché pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche. In sostanza, dunque, un convegno che guardasse al futuro con un po’ di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze. Ritengo che sia stato un errore non esserci ancora arrivati.
E perché non ci si è arrivati?
Le cause sono tante, ma io ne voglio sottolineare una. In questi ultimi anni ci siamo giustamente concentrati sul tema della lotta contro la guerra. E c’è ancora tanto da fare perché in Italia si estenda la consapevolezza, che nella RFT è più estesa che da noi, che la guerra è davvero possibile. D’altra parte, però, bisogna stare attenti che la paura della distruzione totale non diventi così ossessiva e stringente da impegnare tutte le energie e impedire di pensare ad altro. Questo sarebbe una vittoria degli strateghi del terrore. C’è infatti chi ha interesse a farci “convivere” col rischio perenne della guerra impedendoci di vedere non solo che la guerra si può sventare ma che si può, già oggi, vivere in modo diverso.
Insistiamo ancora sul tema dell’elettronica. Come deve prepararsi il partito ad affrontare questa nuova epoca?
Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, a orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani…
Si può arrivare a dire che i lavoratori intellettuali sostituiranno la classe operaia tradizionale?
È una domanda che si spinge molto avanti nel tempo. Forse avanti di alcuni decenni. Comunque già oggi i processi industriali spingono a far sostituire da questi strati notevoli settori di classe operaia. Mi pare però che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica.
Ma in un mondo nel quale le informazioni, anche le più sofisticate, possono arrivare direttamente nelle case della gente, resisterà il partito di massa? Avrà ancora un senso un partito che costruisce un proprio sistema autonomo di informazione con gli iscritti? L’elettronica non spezzerà il circuito della partecipazione?
La questione esiste ed è anche più ampia di quella che tu poni. Non riguarda solo il PCI e i partiti di massa ma riguarda il destino e le possibilità stesse dell’associazione collettiva. Io francamente credo che questa esigenza sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà ad esistere anche se in forme diverse dal passato. La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica…
Ma già si parla di “democrazia elettronica”: la gente risponde da casa ai quesiti posti sul video dall’amministrazione…
La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi per esempio, nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche. È qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.
Quindi tu non credi che anche i partiti storici come quelli della vecchia Europa possano diventare solo dei partiti-immagine…
Possono, certo che possono. Ma intanto bisogna attrezzarsi per saper essere anche partiti-immagine e partiti d’opinione. Il rischio è quello di diventare solo questo. Perché sarebbe un impoverimento non solo della vita politica, ma della vita dell’uomo in generale.
Il rischio segnalato dagli intellettuali che si occupano di queste materie è che l’immagine tende progressivamente a svuotare di significato le parole, i contenuti, la sostanza di una linea, per appiattirla al modello pubblicitario. Vince chi ha la reclame più efficace…
Dietro a questa e ad altre paure che vengono segnalate rispetto alla rivoluzione elettronica c’è spesso un tradizionale sentimento delle elite intellettuali, che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte. Del resto è stato così anche per Orwell. E non era neanche una grandissima novità perchè era stato preceduto da altri che avevano la stessa “ossessione” ed erano anche scrittori più raffinati di lui come Huxley. Io credo che, in linea generale, bisogna avere un atteggiamento critico verso questi sentimenti che, anche quando non esprimono la volontà di mantenere esclusive certe posizioni di privilegio intellettuale, finiscono per opporsi alla diffusione della cultura.